Ve l’ho già detto che adoro la Radio? Se non l’ho fatto prima, adesso lo sapete. Dove ci sono io c’è musica ed il più delle volte c’è una radio accesa. Stazione radio preferita? Dipende dai periodi. Fondamentalmente ascolto Radio2 ma poi, durante l’estate soprattutto, quando il palinsesto è meno accattivante, comincio a fare zapping e mi fermo su Radio Montecarlo o su Radio Capital o su Virgin Radio, o dove trovo una bella canzone, e poi mi sposto ancora e poi ritorno a Radio2.
Certo, a volte la radio può risultare noiosa, per due motivi. Il primo, da quando esistono i social: i conduttori spendono troppo tempo per ricordare di postare commenti sui profili Facebook, Twitter del loro programma, e lo ripetono tante di quelle volte che appaiono veramente fastidiosi. Il secondo, da quando tutti hanno voluto imitare Fiorello dei tempi di VivaRadioDue, tempi in cui io alle 13.40, in auto di ritorno dal lavoro, accendevo la radio e ridevo da sola alla guida e la gente che incrociavo mi prendeva per matta: in ogni programma radiofonico c’è qualcuno che DEVE far ridere. Alcuni ci riescono e anche bene, non toglietemi il Ruggito del Coniglio per esempio, altri potrebbero davvero farne a meno, tipo che se Max Giusti dovesse smettere di fare SuperMax sarebbe tanto di guadagnato. Fiorello non lo si può imitare, no no no. Fiorello è Fiorello. E anche VivaRadioDue era VivaRadioDue Il tentativo di Edicolafiore prima, e di Fuori Programma ora, di equiparare quel successo, non riesce a pieno titolo, anche se Fiorello resta Fiorello. E Fiorello-Baldini son sempre loro.
Una cosa particolare che mi piaceva, e mi piace di Fiorello è il ricercare nuovi talenti tra artisti sconosciuti che hanno “stoffa”. E’ merito suo se abbiamo conosciuto i Tinturia, Matteo Brancaleoni, gli Effervescenti Naturali, e altri. Ecco, tra questi altri ci sono anche i Tiri al piattello che cantavano una canzone al limite del demenziale e che mi metteva di buonumore quando la sentivo. Il titolo era Che bella la vita. L’altro giorno m’è preso il pallino di riascoltarla, l’ho caricata sull’iPhone e sono uscita per andare a far la spesa. Volevo preparare un piatto unico freddo, riso integrale con verdure e queste mi necessitavano fresche. Prendo la borsa per la spesa, mi bardo le orecchie con le cuffie ed esco. Faccio partire la musica e… “La peste, la lebbra, la gotta, l’eczema, la sars e poi l’eritema, la scabbia, la rabbia, la tubercolosi, gastrite, nefrite, la peritonite. Mi han licenziato e tu mi hai lasciato stanotte ho forato e al gelo son stato. Che bella, la vita ho il cuore malato, ho perso la milza, mi sono azzoppato. Che bella, la vita ma il fegato è andato e tu sei fuggita con mio cognato.” Non potevo trattenermi dal ridere, mi tornavano in mente le risate che mi facevo da sola in macchina coi commenti di Fiorello, e ridevo adesso perchè ridevo allora, ridevo del ricordo del ridere. Dev’essere che accade per lo stesso principio della risata contagiosa: si ride perché si ride.
“Ciao, Mara, ma che fai? Ridi da sola?” Click, stoppo.
“Ciao, Dino, siiii, rido da sola perché stavo ascoltando una canzone troppo simpatica, non so se la conosci. Tu ascolti la radio? Ascoltavi VivaRadioDue?”
“Sì, come no? Non tutti i giorni, ma l’ascoltavo spesso. Che ridere!”
“E te li ricordi i Tiri al piattello?”
“Ma chi? Quelli che cantavano la canzone con tutte le malattie e le sfighe del mondo”
“Si, proprio quella!”
“Ahahah, certo che me li ricordo! Quella canzone deve averla scritta Dolores.”
“Dolores chi?”
“Hai ragione, Mara, non te ne ho mai parlato. Dolores è la mia compagna. “
“Hai una compagna latino americana che scrive canzoni? Spagnola? Sa ballare il tango, il flamenco?”
“No, no, no, è italianissima e balla solo la mazurka. In realtà si chiama Elisabetta, Betta per gli amici, ma io la chiamo Dolores.”
“Dino, non mi pare ci sia molta assonanza tra Betta e Dolores”.
“Lo so, lo so bene. Il fatto è che lei vive per i suoi malanni, ogni giorno ne ha uno nuovo e può averne anche più di uno nello stesso giorno: – lo ascolto, ma mentre lui parla, io comincio a scegliermi le verdure che mi servono, mi mette un po’ a disagio sentirlo parlare della sua compagna, non sono pronta a raccogliere queste confidenze: zucchine verde scuro, melanzane viola, sedano, carote, pomodorini datterini, patate, peperoni rossi, fiori di zucca appena raccolti – la testa, il collo, la spalla, un ginocchio, un orecchio, lo stomaco, l’intestino, il cuore che batte forte, poi che sembra non battere, l’unghia incarnita, la congiuntivite… Insomma, è un continuo, ha l’agenda piena: lunedì il cardiologo, martedì il gastroenterologo, mercoledì l’ortopedico, giovedi il ginecologo, venerdì l’internista, sabato il neurologo, ovviamente, e domenica riposiamo tutti. Come altro potrei chiamarla se non Dolores? E chi altri avrebbe potuto scrivere quella canzone se non lei?”
“Dino, dai, mi sembri irriverente. Se una persona lamenta dolori, vuol dire che da qualche parte ne ha davvero. Magari anche in qualche parte non facilmente visibile, non credi?”
Pesa le verdure, Dino, sono tutte del suo orto, me lo sottolinea mentre mette nei sacchetti e con gli occhi orgogliosi mi dice anche che tra qualche giorno saranno pronti i fagioli borlotti ed i fagiolini piatti e quelli tondini. Poi continua: “Guarda, non è che io non le credo, però, dato che clinicamente non viene riscontrato nulla e lei persiste nel ricercare una qualche malattia, le ho cambiato nome e così da qualche mese è diventata Dolores.” E lo dice allargando le braccia e sorridendo tra il rassegnato e il combattivo, come se fosse paziente e allo stesso tempo desideroso che da un momento all’altro accada un miracolo di repentina guarigione. E conclude” Ma ti immagini se, come dice la canzone, un giorno dovesse anche fuggire con mio cognato? Sarebbe il colmo!” E scoppia in una risata sonora.
Gli faccio da eco, immagino la scena, pur non conoscendo Dolores: c’è Dino in campagna tra i suoi filari di vegetali ordinati, sta legando le piantine di pomodori ai paletti, è a capo chino sulla terra e canticchia una delle sue canzoni preferite, un rock anni ’70, alza gli occhi un attimo e vede in lontananza una Renault 4 amaranto allontanarsi dalla sua casa, sulla stradina sterrata. Dal tettuccio aperto una figura femminile in piedi, vestita di bianco, lo saluta agitando il braccio con in mano un cappello a tesa larga. Alla guida dell’auto c’è il cognato. Dolores è fuggita. Continuo a ridere mentre pago le mie verdure, saluto Dino, lui mi saluta, ci diamo appuntamento alla prossima volta, prendo i miei sacchetti, riaccendo la musica e vado via.
“Però ti amo, ti amo, ti amo, io ti amo, però… ti amo, ti amo, ti amo, io ti amo……perlomeno rimaniamo amici.”
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