“Pronto, Leo?”
“Pronto, sì. Leò, sei tu?”
“Si, sono io. Ciao, Leo.”
“Ciao, Leò. Chi fu? Dimmi tuttu.”
“ Senti, Leo, li stai lejendu i giornali? Li stai videndu i telegiornali? Vidisti che gran burdellu che sta succedendo qui in Calabria, nel reggino, con ‘sto fatto delle processiuni?”
“ Ca comu, Leò? Ho letto gli scritti di tutti i grandi di penseru. Visti puru tutti ‘sti video che girano nel guebbi, con chi dice A e chi arrispunni B. Non tanto guardai i tiggì, resto sempre ‘na ‘nticchia allergico alla televisioni, che ci vo’ fari?”
“Eh, caro mio Leo, hai ragione! ‘Sta televisioni più tempo passa e cchjù danni fa. Meno male che ancora c’è ‘ncarcunu che scrive e che dice comu sunnu i cosi; non assai per la verità, ce ne vorrebbero di più. Io m’immaginavo che la Calabria la raccontavano meglio. Avevo parlato alla Calabria, gli avevo detto che quando il Signore si addormentò, del breve sonno divino approfittò il diavolo per assegnare alla Calabria le calamità: le dominazioni, il terremoto, la malaria, il latifondo, le fiumare, le alluvioni, la peronospora, la siccità, la mosca olearia, l’analfabetismo, il punto d’onore, la gelosia, l’Onorata Società, la vendetta, l’omertà, la violenza, la falsa testimonianza, la miseria l’emigrazione. Ma, benedett’Iddio là ‘undi è!, gli avevo pure detto che Questi mali e i bisogni di case, scuole, strade, acqua, luce, ospedali, cimiteri, giustizia, libertà, grandezza, nuovo e meglio, sono ormai scatenati e debbono seguire la loro parabola, intendendo con parabola la figura geometrica, che nasce, si sviluppa verso l’alto, arriva al vertice e poi discende fino a decadere. Non volevo in alcun modo fare il benché minimo riferimento alle parabole evangeliche, me ne guardarrìa beni! Le parabole d’u Vangelu sono cosi boni; tutte le cose che io dissi non hanno nenti di bonu, venendo dal diavolo che s’infilò. Le cose boni sono i regali che il Signore fece Quando fu il giorno della Calabria, il capolavoro che gli vinni fora, con tante bellezze, di natura, di genti, di artisti e litterati, di costruzioni e monumenti, di cibi d’ogni mese, di sole e di sole e di sole e di sole…”
“Oh, Leò, capisco li toi amarizzi, ci passo puru ìu ogni tantu, spissu. Ma capisco anche che nui siciliani li bellizzi le abbiamo sapute conservare e sfruttare meglio di voi calabrisi. Vidi quanti turisti che ogni giorno affollano l’Isola e ci portano fama buona. In contrasto a quella fama cattiva che per anni abbiamo, a ragione, avuto. E per certi aspetti, le cose non sono cambiate, come da voi. Ricordo che nell’agosto dell’85, all’indomani del delitto Cassarà, ebbi a scrivere dalle colonne del Corsera che il delitto apparteneva ai delitti fatti dal primo livello della mafia. Bisogna fare attenzione a questo primo livello, che è quello della manodopera impiegata dalla mafia. Bisogna far qualcosa per bloccarlo, perché è lì che la mafia può reclutare gli uomini disposti a uccidere. I giovani in una città come Palermo offrendosi come manovalanza alla mafia trovano un modo di essere eversivi. Il discorso è generale, ma vale di più per Palermo: i giovani, specie quelli più sprovveduti, non sanno che fare della propria vita e sono affascinati dalla violenza e anche dal denaro che possono avere facilmente. Bisogna far mancare alla mafia questo terreno di coltura, questo braccio armato. Ti pare, Leò, che non siamo ancora a questi tempi? Parlavo di Palermo, ma oggi vale per tutta la nostra bell’Italia. E però è certo che da noi si fa sentire assai di più. Pecchì i bisogni di cui tu hai detto restarono tali, affrontati male e insoddisfatti. Guarda che scuole, guarda che strade, guarda come chiudono ospedali, guarda che giustizia svinnuta, mancu morire si può che un posto ‘o cimiteru costa quanto un villino a mare, e guarda come i figli rricominciarono ad emigrari”
“Leo mio, invece di darci, ci hanno tolto. Invece di darci, ci tolgono. La storia continua. E si ripete. Qui abbiamo visto solo repressione. Non abbiamo visto promozione. Solo contrasto del disagio, e mai promozione dell’agio. Solo divieti e mai permessi. Vidi puru ora, con le processioni. La Commissione Antimafia (e scusami il termine, lo so che non tanto ti garbizza) decretò che per ogni manifestazione che prevede cortei, in Calabria si debba chiedere il permesso alle Prefetture, non più ai Sindaci. Da una parte mi viene da rridìri, che in tantissimi Comuni non c’è Sindaco ma Commissario Prefettizio. Quindi stu permessu si dovrebbe poter chiedere al Commissario-Sindaco per smaltire un po’ di burocrazia. Amaru chi ha ancora il Sindaco, sta passandu di moda! E ti dirò di più. Leo. Nella mia Diocesi il Vescovo Milito (che ogni tanto me lo confondo con Milingo, vabbè esorcisti ognuno a modo proprio) ha sospeso tutte le processioni fino a data da definirsi. Ancora una punizione, ancora una repressione. Concordo con il fatto che i riti religiosi devono esser tenuti distinti con i rituali che di religioso non hanno nulla, anzi contrastano con i principi del Vangelo. Mirabile fu il gesto del Maresciallo, ma ora mi aspetto un più deciso intervento da parte dello Stato, piuttosto che quello della Chiesa. La Chiesa accogliente dei giusti s’è fatta zerbino dei disonesti e, come polvere spazzata, ha nascosto quei giusti sotto questo zerbino nell’intento di proteggerli. Lo Stato si deve riprendere le sue membra, i cittadini onesti, e fabbricargli intorno opportunità di soddisfazioni, non opportunità di lamento. E’ ora di bastare col lamento, è ora di parlare e di dire senza lagna. Mi piglia capustoticu a pensare al 16 agosto, quando le strade della mia città non saranno attraversate da migliaia di fedeli giunti da ogni parte. Venissero pure per curiosità, ma come fare a non considerare come pellegrinaggio il viaggio col caldo di agosto? Come non considerare pellegrinaggio il ritorno a casa, dei tanti migrati, per La Processione? Sono davvero afflitto perché, ancora una volta, per pochi dobbiamo pagare tutti. Ti invido, Leo. Invidio te che in questi giorni stai vivendo le gioie di Rosalia e che ti prepari con la tua città a vivere la gran festa col Carro e la processione delle reliquie di la Santuzza, che non fa inchini ma che, macàri, custodisce certamente segreti…”
“Leò, chi t’aju a diri? Hai rraggione su tutto. Pure papa Francesco ti darebbe rragione, dissi che le cose stanno cambiando. Io lo spero, spero proprio che la genti onesta non ci stia più a subire e sopportari e calari a testa ad ogni suprema decisioni. Spero che i cristiani (non c’è bisogno di dire onesti, sennò chi cristiani su?) si raccolgano in preghiera nel giorno che doveva essere della Processioni e che invece di battersi il petto per dire mea culpa si guardi intorno e tenda la mano al proprio vicino e tutti insieme abbandonino gli scriteriati, compresi i rappresentanti delle istituzioni se scriteriati sono, e ce ne sono e ne abbiamo, sia tu che io. Che si capisca una volta per tutte che questo potere malavitoso tende solo e soltanto a perpetuare se stesso, ed è questo che bisogna interrompere. Leò, ora t’aju a salutari, che mi vado a preparare e mi vado a fare una caminata e a sentire il Cunto in piazza Monte di Pietà. Tu tienimi informato, vediamo che cosa noi putimu fari per risollevare questo popolo.”
“Beato tu, Leo. Io ora vado a scrivere un tweet ai miei paesani, glielo dico di nuovo che niente impedirà alla #Calabria di essere come il Signore l’ha voluta.La sua felicità sarà raggiunta con più sudore.Ecco tutto #iononminchino. Buone cose, Leo.”
“Un caru salutu, Leò.”
Io non so se Leonardo Sciascia e Leònida Repaci si siano mai sentiti al telefono, se abbiano mai dialogato in termini simili. So soltanto che la notte passata, li ho sognati così.
mara rechichi
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